L’architettura di un sontuoso gotico veneziano, che ha saputo dar forma alla tragedia shakesperiana di Otello, nell’immaginario di un Orson Welles visionario ed espressionista ospita, in occasione di questa biennale postpandemica, un’altra straordinaria allegoria: la città post-industriale di Alessandro Russo.
Apre la mostra la spericolata prospettiva di una torre idrica, anch’essa erede della fotografia di Eisenstein, come la scala a chiocciola di Palazzo Contarini del Bovolo lungo cui Welles trascina la vaporosa figura di Desdemona. Ma ora i nomi, come quello di Giovanni Candi, autore della vertigine rinascimentale che cinque secoli di storia non hanno cancellato, sembrano tutti assorbiti nella gora del tempo, e nel reticolo che la Laguna disegna stagna un silenzio fatto di anonimia.
La pennellata liquiforme di Russo mette in scena il contraltare di un rinascimento perduto, l’occasione persa, ritiratasi nel suo guscio elicoidale. Ma il pittore, come a scavare in quel labirinto caleidoscopico, forza inquadrature alla Rodchenko, e con sguardo prensile da camaleonte Russo scuote l’immagine ferma, vetrificata della città postmoderna. La guarda attraverso un velo di albumina, liquefatta, come Mark Rothko quando dichiarava di dipingere la luce che si vede a occhi chiusi.
E ne coglie un’idea a memoria, carpendo quella che Klee definiva, una “reminiscenza”. Ma il ritratto che ne esce non è né astratto né informe: Russo scava l’ossatura, l’esoscheletro che resta dei suoi edifici, delle strade… ecco che attraverso una radiografia della “macchina per abitare” memore delle indagini autoptiche di Francis Bacon, si rivela ogni assenza di battito. Il luogo della vita, dello scambio pulsante di una comunità, così come lo aveva veduto Georg Simmel, si è trasformato in un catafalco inerte. I suoi abitanti? Non possiamo aspettarci altro che larve chiuse in crisalidi catafratte, impossibilitate al più piccolo movimento.
In questo viaggio al termine della notte, l’inquietante visione kafkiana sembra trasformarsi in allegoria fatale... quella della morte della città. E’ questo il tetro scenario che Russo immortala? Tutt’altro! Nella sua pittura si nasconde un memento, e insieme un inno alla vita. Il paesaggio pullula ora di nuovi totem, innalzati da una civiltà barbara a divinità di cui non conosce i nomi. I pochi, quasi indecifrabili, restano a campeggiare su scafi inerti, sbiancati dalla salsedine. Pronti a salpare e perdersi per sempre nelle nebbie lagunari.
Russo raccoglie ogni segno, come un giardiniere dotato dell’arte magica di riattaccare alle corolle i petali dispersi al vento, e lo ricollega alla vastità di una tela che si nutre di pigmenti, odorosi come nettare, frementi di energia vitale come germogli in primavera. E suggella una nuova Primavera, allegoria di rinascita, come Venere apparsa dalla schiuma del mare, mentre la tavolozza nutre il seme di un panteismo di cui si ammanta ogni forma, e l’assenza dell’uomo è preludio di una nuova presenza divina. Un dio che con la bellezza salverà il mondo.
LA MOSTRA
Passeggiando per calli e campi, ci si imbatte in una strana scala elicoidale che risucchia verso l’alto lo sguardo curioso del flâneur. E’ all’occhio tattile del “botanico del marciapiede”, del girovago, del camminatore di professione, del filosofo peripatetico, del piedipiatti in cerca di indizi, del conoscitore delle pieghe della città, che le due ampie sale di Palazzo Contarini del Bovolo si schiudono, proiettando su lignee ossature e pareti di merletto i frames di un’enorme pellicola cinematografica. Il regista, Alessandro Russo, ha scelto però, alle diafane epifanie delle immagini di luce, di sostituire tele gravide di pigmento. Un pigmento che si affanna a recuperare il ceruleo del cielo, a tentare l’alchemica magia, che solo la pittura può, di trasformarsi in voluta ammantata di fumiganti presenze, da cui conquistare un ciano d’Olimpo. Un pigmento polveroso, dimentico del ductus accademico, e libero di sporcarsi con spatole, pennelli da cartellone, fino all’affondo pastoso delle dita, pur di toccare le cose: quelle cose di cui è fatta la realtà, la città, il paesaggio.
E’ così che ci accorgiamo, una volta aperti davvero gli occhi, di essere entrati, da protagonisti, nel film che una produzione sconosciuta – qualcuno la chiama società liquida, altri post-moderna, altri ancora segnalano “ismi” da gloria biennale… - ha deciso per noi, e che forse non si è ancora accorta di averlo affidato al più implacabile, feroce, e raffinato dei registi contemporanei. Come Fritz Lang, “Quando la città dorme”, Russo avverte che è l’ora di acuire lo sguardo, e con lenticolare accuratezza coglie ogni dettaglio.
Ecco allora, nella prima sala, prore di navi, alte torri, singolari edifici e battigie desolate ancorarsi a un disegno più grande ma ancora indecifrabile, come pezzi di scacchi a mosse già tutte studiate, ma imprevedibili. Vietato solo, ricorda Russo, l’arrocco! Sono l’alfabeto primario di una poetica che diventa post-linguaggio, prima ancora di essere linguaggio coeso. Un’architettura per elementi, stigmatizzata dalla critica più ortodossa, idolatrata da quella militante, teorizzata da quella accademica data in pasto ai media, ai software, ai progetti in CAD; e mai metabolizzata dai suoi abitanti. Così Robert Venturi, e avventurosi avventori con lui, hanno tentato di cibarsi di una città a forma di torta. Ma sotto, ci ricorda Russo, appena sciolte le candeline, si nasconde l’armatura; e il fumo che si spande ora nell’aria sa di zolfo, carbonio, e nitrato di potassio…
Appare così, nella seconda sala, come il Colosso di Goya, l’immagine Post-industriale: caleidoscopica, frattale, replicante. Ma non distopica! Alessandro Russo, col coraggio di chi sa trasformare immagini in realtà, ci indica l’utopia, la possibilità che si nasconde anche nel tessuto lacero e squassato della città senza vita. Ora, come allora la Quinta del sordo, questa sala invita a trasformare lo sguardo in senso polimorfo, capace di riappropriarsi degli elementi del paesaggio, riportarli ad insiemi, e in questa semiosi intrisa di colore, farne corollari di “progetto”, e di vita.
Perché, ci ricorda Russo, primo a sancire il confine netto tra ambiente industriale e post-industriale, “fino a quando gli oggetti dell’architettura non si potranno staccare dal paesaggio, come un quadro dal muro”, la pittura sarà il solo, estremo baluardo. E questi paesaggi da parete – per capire la qualità pittorica che vi si nasconde bisogna guardarli così: da vicino, scostando le infinite velature con pince nez alla Chardin, si scoprono dettagli di Fiandra, frutto della stessa ricerca di verità inseguita per tutta la vita da Cezanne, estratta direttamente dagli oggetti, e catturata da un tracciato obliquo in Morandi; man mano che ci si allontana, si percepisce intorno a quegli stessi oggetti addensarsi una precisa atmosfera, quella che Leonardo chiamerà “prospettiva aerea”, il loro spazio vitale, che li rende parte del mondo…e di colpo tutto diventa reale, mentre veniamo inghiottiti dal Lebenswelt – ci aiuteranno a progettare un mondo guidati dai nostri sensi, e dalla straordinaria bellezza che li saprà orientare.
Marco Marinacci
ALESSANDRO RUSSO, nato a Catanzaro nel 1953, in più di quarant’anni di pittura ha affermato la propria originale personalità artistica nel panorama figurativo europeo. Sin dagli anni 70, con le prime rassegne in gallerie private, mostra la personale invenzione di un universo visionario, autonomo e raffinatissimo. Inizialmente personaggi ironici e caricaturali compaiono nelle sue opere per dare vita a un mondo senza tempo, carico di presenze fantastiche e avvolto da una poesia densa di significati esistenziali e sociali. Il suo stile personale rielabora con maestria i modi e le tecniche della pittura europea del XVIII e XX secolo. Ciò porta il suo lavoro all’attenzione della critica. Negli anni 80, mentre seguono esposizioni in tutta l’Italia, Russo sceglie di lavorare nella città natale e di impegnarsi nell’insegnamento all’Accademia di Belle Arti catanzarese, dove diventa Professore di Decorazione. Negli anni 90, il radicamento nella propria terra è testimoniato dai lavori all’interno di importanti spazi pubblici, come la Pinacoteca di Taverna; il Palazzo De Nobili, sede del Comune di Catanzaro; il Palazzo Pubblico di Corato; il Palazzo provinciale della Guardia di Finanza a Vibo Valentia; il Centro Calabrese dei Vigili del Fuoco. Frequenti sono in questi anni gli impegni all’estero: su invito di alcune università fuori dall’Italia, espone alla Casa delle Arti di Pécs, in Ungheria, nel Museo Pet?fi di Budapest, e successivamente nel Museo di Belle Arti de La Valletta a Malta. Nel 2003 l’Istituto Francese di Firenze dedica un omaggio all’artista ospitando una sua mostra. Nel 2005 partecipa alla prima rassegna del MAC, Museo di Arte Contemporanea dell’Accademia di Catanzaro. Dal 2008 si intensifica la sua attività espositiva: Napoli, Milano, Innsbruck, Catanzaro, Bologna, fino (2011) al Padiglione Italia della Biennale di Venezia. Nel 2011, la fondazione Rocco Guglielmo ed il comune di Catanzaro gli hanno dedicato una grande mostra nel complesso monumentale del San Giovanni. Da circa dieci anni, il paesaggio è il soggetto privilegiato delle sue opere, esposte in diverse gallerie italiane. Nell’ottobre 2017 è invitato dal più importante magazine italiano Panorama, ad esporre nella tappa milanese del tour “Panorama d’Italia”, con una mostra personale dedicata a Milano, allestita a Palazzo Durini. In preparazione è una mostra in Cina con opere che hanno per soggetto la recente trasformazione di alcune megalopoli mondiali. Fino al 2021 è stato docente di Decorazione presso l'Accademia delle Belle Arti di Milano "Brera".